di Dario Fruscio

6^parte

Nella precedente ultima riflessione è stata posta l’opportunità, intesa come sollecitudine delle persone effettivamente dedite al bene del Paese,di mostrare e professare interesse vivo e fecondo per l’appartenenza del nostro Paese all’Unione europea e per la sua adesione all’eurozona.
Però, che non si sia né si appaia lievi nel professare tale nostra scelta di campo. Non scherziamo, direbbe il Grande Decano degli economisti statunitensi, il Nobel Paul Samuelson, la Casa(Europa) il 25 maggio p.v. rischia di andare a fuoco; quanto meno di essere investita da qualche fiammata, con possibile compromissione della sua solidità.
Consegue che quanti di scelta europeista, sarà il caso manifestino vigorosamente tale orientamento, così da rendere evidente che ad interessarsi di Europa non sono soltanto i detrattori e i critici dell’Unione. Che, anzi, costoro rappresentano delle schiere (destinate a rarefarsi) che, loro malgrado e inconsapevolmente, in uno schema mentale squisitamente conservatore, attraverso un gioco di condizionamenti portati avanti nell’ambito delle alleanze politiche maggioritarie, è valso loro a concorrere nel tenere sub iudice non soltanto lo sviluppo del progetto europeista, e, sia detto incidentalmente, anche ad impedire l’avvio, nel nostro paese, delle riforme istituzionali indispensabili alla crescita dell’efficienza governativa e socio-econonmica del Paese.
Ci riferiamo, evidentemente, a quelle schiere di cittadini elettori che nel tempo hanno subito come una sorta di sedimentazione conservatrice ad opera dei loro “conductor” politici, verso costoro mai venendo effettivamente meno atteggiamenti quasi religiosi di omaggio e venerazione. Ciò rendendo possibile, fra l’altro, una sorta di status quo per quei “sederi di pietra” che da oltre vent’anni siedono in Parlamento come tanti Re Artù, incondizionatamente e fervidamente amati, come con mistica devozione, da gente semplice e generosa, come prima si diceva, ancorché mai corrisposta nelle aspettative loro prospettate.

Una ventiduesima riflessione si ritiene debba costituire il punto di partenza per una serie di inevitabili susseguenti riflessioni, aventi a riguardo aspetti regolamentari, questioni di compatibilità fra proposte di politica economica nazionali e vincoli comunitari esistenti, tecnicismi che soventemente finiscono per enfatizzare le difficoltà e le differenze fra i comportamenti dei Paesi comunitari.
Da quanto detto nel corso delle nostre precedenti riflessioni emerge che la costruzione dell’Ue è realtà inscindibile da quella dell’euro. Entrambe tali realtà vivono di forza sinergica: il rafforzamento dell’Ue giova al ruolo dell’euro, quest’ultimo giovando, a sua volta, alla tenuta e al consolidamento del progetto unionistico europeo.
Nella realtà, l’esperienza dei vari Paesi europei mostra un andamento secondo linee di sviluppo e crescita molto diversificate. Ragion per cui la fitta rete regolamentare, teso a definire l’uso della finanza pubblica dei paesi aderenti all’Ue in base a limiti e parametri fissati in sede comunitaria.
Un caso, per meglio intendersi: con l’entrata in vigore dell’euro il mercato del lavoro a livello europeo si è sviluppato in modo differente nei vari Paesi: in alcuni le retribuzioni sono andate oltre la crescita della produttività, in altri casi l’aumento della produttività, soltanto parzialmente e limitatamente ha dato luogo ad aumento retributivo.
Osserva Bini Smaghi, in “Morire di austerità”, Il Mulino, 2013, p.60, che “Nei dieci anni che hanno preceduto la crisi, la produttività media dell’Italia è rimasta sostanzialmente immutata, mentre i salari nel settore privato sono saliti ad un ritmo del 2,5% annuo. Nello stesso periodo la produttività in Germania è aumentata ad un ritmo del 3% annuo, e i salari sono aumentati solo dell’1%, riducendo così i costi unitari del lavoro, con effetti favorevoli sull’occupazione”
Gli effetti di disallineamento indotti in tutti i Paesi comunitari dalla testé descritta dinamica, sono del tutto deducibili.
Per rimanere soltanto nell’ambito Italia-Germania, risulta che fra il 1999 e il 2008 l’Italia ha perso, in termini di costo medio pro-capite, circa il 30% di competitività rispetto alla Germania.Tale fenomeno è presto spiegabile nella sua genesi e nei suoi effetti: la politica economica nel nostro Paese piuttosto che indirizzare la finanza pubblica in ricerca e sviluppo, ovvero in funzione del miglioramento della competitività, ha continuato nel sostegno di sempre della spesa corrente.Effetti conseguenti: negli ultimi venti anni al Paese è toccata la crescita più bassa d’Europa. Quindi, pure è toccato all’Italia l’effetto drammatico della situazione occupazionale, passata da una condizione di allineamento con quella dell’Ue fino a dieci anni fa, a quella attuale fra le più gravose in ambito europeo.
Si potrebbe continuare in tali analisi seguendo un approccio di tipo comparativo di ambito comunitario mediante l’uso di altri parametri e indicatori economici-finanziari-sociali.
Si preferisce tagliar corto, ritenendo bastevole considerare, per ciò che in questa sede occorre comprendere e valutare, che dopo il crack della banca d’affari Lehman Brothers, in Europa a distanza di un anno da quell’evento alcuni Paesi versavano in fase di ripresa economica; altri recuperavano meno velocemente, altri ancora permangono tutt’ora se no in recessione, in depressione tendente a deflazione.
Su tale diversificata tempistica d’uscita dalla crisi hanno esplicato un qualche effetto il sistema integrato dell’Ue e la moneta unica europea? Riteniamo che più che una risposta per monosillabi (sì oppure no) valga rassegnare un minimo di considerazioni inclusive, in se stesse, di risposta alla domanda di cui testé:
1. la crisi del 2008 non si è abbattuta sui Paesi dell’Ue con differente gravità. Semmai, a fine 2007 differenti erano le condizioni strutturali della finanza pubblica e dello stato delle potenzialità produttive e mercatistiche delle imprese dei singoli Paesi Ue;
2. la crisi ha impattato su realtà nazionali europee differentemente dotate di condizioni strutturali idonee a fronteggiarla. Il nostro Paese, in particolare, abbiamo appena rilevato, molti anni prima dell’irrompere della crisi, versava in una condizione di produttività totale estremamente più contenuta rispetto ad altri Paesi comunitari, Germania in primis;
3. all’insorgere della crisi, le strutture e le istituzioni comunitarie di contrasto a situazioni gravi e generalizzate di crisi, in particolare la Banca Centrale Europea, non erano ancora sufficientemente rodate per resistere all’onda d’urto di una tal crisi;
4. ogni Paese comunitario, optando per politiche pubbliche di bilancio secondo proprie facoltà e consuetudini, ha reso il fronte di contrasto alla crisi non omogeneo, quindi indebolito nella sua possibilità di contrasto alla crisi medesima.
In termini massimamente esplicativi dai punti testé esposti pare d’uopo fare discendere una considerazione basilare: nulla da essi è ricavabile da far dire o soltanto indurre ad ipotizzare, un qualche collegamento e/o rapporto causale fra quanto evidenziato nei testé detti punti e la sussistenza del patto integrativo fra nazioni europee(Ue). Tanto meno è ravvisabile un qualche rapporto causa/effetto fra il contenuto di tali medesimi predetti punti e il corso monetario rappresentato dall’euro.
In modo più esplicito e in tutta chiarezza, ci sentiamo ribadire che nulla lega o collega, in modo causale quanto detto nei punti precedenti all’esistenza dell’Ue e dell’euro.

Segue…….