Di Dario Frusciofoto fruscio

Una ventitreesima riflessione dalla considerazione che il filo conduttore delle riflessioni finora rappresentate è lineare, oltre che ben visibile: l’euro non è in crisi, tanto meno è artefice delle condizioni di precarietà della finanza pubblica nazionale e della drammatica debolezza del sistema produttivo del nostro Paese.
Ciò detto, si può sperare che gli strilloni del “basta euro”, “no euro” e quant’altro, fatta incetta di voti e così procrastinare la loro permanenza al Parlamento europeo, direttamente o a mezzo loro epigono, pretoriani, sinedriti, dismetteranno di strillare fino al prossimo turno elettorale europeo. Quanti siedono negli alti scranni del sinedrio che ben sanno e conoscono i benefici che il nostro Paese ha tratto dalla moneta unica europea, in special modo a partire dallo scoppio della crisi attualmente ancora in corso, si spera abbiano un qualche sussulto di buon senso e di premura personale e istituzionale adoperandosi ad emendare, correggendola, l’insensatezza dei loro sinedriti Magari soltanto ricordando loro che vent’anni fa, in Italia, con un debito pubblico pari a poco meno di metà di quello attuale, e di durata media intorno al 50% di quella attuale, il Tesoro si trovava nel dover pagare qualche miliardo in più rispetto a ciò che attualmente paga.
A questo punto, niente capovolgimenti, i piedi per terra; la testa al suo posto, in alto; forte sia la voce di quanti, muniti di buon senso e lealtà, sono persuasi che l’unione europea discende dalla sollecitudine intelligente e lungimirante di coloro che videro e vollero la prospettiva del diffondersi della pace e dello sviluppo solidale economico sociale nel Continente europeo, mediante un processo crescente d’integrazione delle nazioni e dei popoli europei.
Tale prospettiva è andata a segno, talché è possibile oggi considerare che l’integrazione, la sussidiarietà, la cooperazione che permeano il vivere e l’agire della persona umana e delle collettività, hanno fatto sì che oggi l’Europa fosse, rispetto a oltre mezzo secolo fa, più ospitale e umana, più ricca nei rapporti personali e degli affari, più serena e fiduciosa nell’attesa che, come da lustri e lustri, potrà continuare a contare in una condizione di pace continentale, mai prima d’ora conosciuta.
Per quanto attiene l’euro, la funzione di tale moneta unica veniva vista come determinante ai fini del consolidamento e del rafforzamento dell’Unione europea, sia su base continentale, sia su base internazionale e globale.
Per il caso Italia, in particolare, il ruolo dispiegato da tale moneta è definibile altamente positivo. Con riferimento al passato, ha posto fine alla rincorsa fra periodiche e frequenti svalutazioni del cambio, con pedissequa crescita dell’inflazione,giunta fino al 20%. Conseguenti gli effetti negativi indotti sui deficit del bilancio pubblico come sulla lievitazione accelerata e consistente del debito pubblico, recanti oneri altissimi, tuttora in corso. Il tutto, con graduale perdita di competitività e senza stabilità dei processi di crescita.
E tuttavia “Basta euro” è la breve locuzione che oggi fa più rumore, in modo sconsiderato e assordante, nelle valli e nelle contrade del Nord del nostro Paese, soprattutto.
In considerazione delle nostre precedenti “riflessioni” svolte, costante e forte si è elevata la nostra sorpresa, quasi incredulità, per tale infingardo e sleale atteggiamento.
Sulla scia delle considerazioni ultime, giova richiamare un appello sul Corriere della Sera del 9/04/2014, a firma di illustri economisti (a prima firma Lorenzo Bini Smaghi), che, a vario titolo, collaborano con la Luiss School of European Political Economy (SEP). Si tratta di una riflessione che in modo esemplare compendia, per un verso, l’essenziale delle cose da noi dette nel corso del nostro tracciato finora percorso; per altro verso, prospetta considerazioni che fan parte del divenire delle nostre prossime, successive applicazioni sul tema.
Tali considerazioni, con adesione totale nostra al loro contenuto, ci premuriamo riprenderle integralmente:
“Il passaggio dall’euro alla lira non risolverebbe i problemi strutturali che da anni attanagliano l’economia italiana: dalla rigidità dei mercati dei beni all’inefficiente utilizzo delle risorse umane; dal basso livello di scolarizzazione e di investimenti in ricerca alla produttività stagnante; dall’eccesso di regolamentazione burocratica che scoraggia gli investimenti produttivi all’arretratezza infrastrutturale; dalla lentezza della giustizia alla mancanza di concorrenza nei servizi locali, fino alla corruzione dilagante. Sono questi i veri nodi che occorre affrontare per ritornare alla crescita, combattere la disoccupazione, dare un futuro ai giovani. L’euro non ne ha colpa.”
Siamo seri, quanto meno non si cada nel grottesco. In gioco non sono questioni di colpe. Dal bivio cui l’Unione europea è giunta ne uscirà bene se non cede al sempiterno vezzo di ritenere che le condizioni di ciascun Paese comunitario siano riconducibili ad altri Paesi partner, oppure alla Unione nella sua interezza istituzionale. Occorre, viceversa, che ciò che caratterizza e connota la condizione della complessa articolazione europeistica sia al suo interno totalmente e continuativamente scevra da sospetti; non sia tratteggiata da segnali di prevaricazione di taluni Paesi su altri; non sia infastidita da tendenziali divaricazioni strutturali fra le politiche economiche poste in essere dai vari Paesi aderenti all’unione. Occorre, in buona sostanza, che a permeare e caratterizzare l’Ue, in tutta la sua articolazione (quella dell’euro, compresa e soprattutto), sia uno spirito di franca, reale, rinnovata fiducia e franchezza. Una condizione, questa, che non può che risiedere nel convincimento di ciascuno ed in tutti i membri comunitari, che l’essenza dello spirito comunitario risiede su due grandi strutture portanti: la cooperazione e la sussidiarietà. Entrambe tali strutture,avverte il maggior esperto di studi regionali, l’economista e premio Nobel Robert Mundell, già prima d’ora incontrato il questa sequenza di riflessioni, presuppone che un sistema integrato non sia disgiungibile da un’area monetaria ottimale. E tale non è definibile un’area ove le valute fluttuino liberamente, per la semplice ragione che in tale condizione diviene inevitabile che i vantaggi competitivi vengano realizzati mediante, anche e soprattutto, le fluttuazioni dei rapporti di cambio tra le varie monete dell’area integrata. Nel caso di specie dell’area Ue.
Ancora una volta ci si trova al punto di snodo incontrato più volte prima d’ora:l’integrazione di nazioni e di popoli che effettivamente poggi su principi e valori di sussidiarietà e cooperazione, presuppone, non può che presupporre, che il cemento e l’innervamento di tutta tale struttura integrativa risieda in una moneta unica.
Talché la conclusione: Ue e euro non possono che coesistere. E tale coesistenza non potrà che essere condizione di sviluppo e di consolidamento delle condizioni di sussidiarietà e cooperazione, indicate quali strutture portanti dell’Unione europea.